Interessante articolo di Caparezza, apparso su Rolling Stone, 3, Gennaio 2004.
Il ragazzo dimostra un profonda conoscenza dell’argomento cartoni e in particolar modo delle sigle (so per certo che l’Ipod con cui gira è pieno zeppo di sigle di cartoni), e il pezzo si legge che è un piacere. Bravo Capa
Hiroshi e le pantegane
Metafore ardite di vita reale, giganteschi robot d’acciaio che si muovevano in un mondo di valori assoluti: il rispetto degli amici, l’amore per la natura. Altro che Big Jim, con il suo allarmismo, altro che Topolino, Jerry, Gonzales e i maledetti roditori.
di CapaRezza
Il mio Big Jim è un allarmista. Tiro la cordicella che ha nello zaino e comincia a urlare: «Stai attento! È pericoloso!», «Forza! Non c’è molto tempo!», «Pronti attenti, via! ».
La sua voglia di redarguirmi mi mette in agitazione. Perché mai dovrei ascoltarlo? Forse perché ha il viso glabro modello Gillette? Forse perché ha un corpo tonico, la riga sa un lato e le basette accennate? Forse perchè mostra i muscoli all’occorrenza? Forse perché non ha il pene? Perché? Perché ascoltare lui e non il suo implacabile nemico Professor Obb?
Obb è di tutt’altra pasta e viene da un altro spaccato sociale, ha la cresta, le cicatrici e la barba incolta, ogni tanto mostra i tatuaggi e probabilmente si fa pure le canne. È un professore e non vuole diventare né calciatore, né astronauta, il suo scopo è rompere le palle a Big Jim. Lo scopo di Big Jim è rompere le palle a me. Big Jim e Professor Obb, l’ennesimo sterile bipolarismo. Davanti a questo quadro era ovvio che saltassi sull’ultimo treno in arrivo, quello nipponico, quello della “Goldrake Generation”. Tutta un’altra storia, niente cani smaniosi di gatti, niente gatti smaniosi di sorci, niente sorci smaniosi di formaggio, ma storie cazzute, metafore di vita reale.
L’Uomo Tigre era un lottatore spietato sul ring e generoso con gli orfanotrofi, la stessa Candy era una trovatella dalla vita difficile, il cui primo fidanzatino muore cadendo da cavallo; Conan ragazzo del futuro, viveva in un mondo post-atomico, tema ricorrente negli anime di una nazione che il post-atomico l’ha vissuto davvero.
Gli eroi giapponesi si muovevano in un mondo di valori assoluti, dove il rispetto degli amici, i senso della famiglia, l’amore per la natura e lo spirito di sacrificio soppiantavano le corse degli struzzi e le costate di dinosauro. Il mio eroe era Jeeg Robot d’Acciaio (anche il mio). Era pilotato da Hiroshi Shiba, una specie di Elvis col dramma dell’invulnerabilità che continuava a obbedire al padre defunto, tenuto in vita da un monitor psichedelico. Hiroshi portava al collo un Salvavita Beghelli che squillava quando papà aveva bisogno, e l’amato figliuolo accorreva, sempre, anche se colto sulla porcellana. In 46 episodi, mai, dico mai, che abbia staccato la spina del monitor. Da stimare.
A noi infanti quei cartoni animati spiegavano tutto, anche la morte. E se da un parte un coyote dell’Arizona poteva cadere da un dirupo di chilometri d’altezza rimanendo illeso, dall’altra l’anziano Vitali crepava assiderato per aver coperto Remi in una notte di neve. Erano capolavori spietati e affascinanti, per questo furono osteggiati da tante associazioni devote a Topolino, Jerry, Gonzales e altra pantegane; è colpa loro se non esiste il 45 giri di Devil Man, nonostante il testo addolcito da Riccardo Zara («come un angioletto su nel cielo volerai se t’innamorerai»).
Intanto dagli Stati Uniti esportavano eroi di altra caratura, superuomini con superpoteri spesso ottenuti con le stesse radiazioni che in Giappone creavano altri mostri. Ricordo la prima serie a cartoni dei Fantastici Quattro: la Torcia Umana fu sostituita da un insipido robot, per paura che i ragazzini si dessero fuoco e io per protesta cambiavo canale e mi guardavo Giucas Casella che camminava scalzo sui carboni ardenti. Più passava il tempo più mi appassionavo alle animazioni nipponiche, alle memorabili sigle italiane dei Superobots, di Fogus, dei Cavalieri del Re, dei Fratelli De Angelis, dei fratelli Balestra, di Toffolo, di Fidenco e persino dei Vianella! Roba forte, suonata, altro che quelle petecchie di dance spicciola che fanno da cornice alla “nuova ondata”.
Centinaia e centinaia sono i cartoni che porto nel cuore e che hanno traghettato il mio corpo implume dagli anni 70 agli 80, e i miei eroi sono lì sulla mensola, sotto forma di modellini, di giocattoli, usati, vissuti. Sono come foto, evocano ricordi e stabiliscono il perimetro dell’isola felice nella quale rifugiarmi quando ho voglia e il tempo.
Qui nel mio garage si respira un po’ di quell’aria e un po’ di altre arie, grazie ai vinili che posseggo, ai giochi, agli ammennicoli, ai gingilli e alle carabattole di cui mi circondo senza sosta. Tutta roba a cavallo tra le due decadi, tutto materiale per rifocillare la fantasia. E ogni tanto rispolvero anche questo Big Jim, gli schiaccio la schiena e lui mi fa il gesto dell’ombrello, come ricordarmi che, in fondo, non sono il mio genere di eroi quelli che vincono.
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